Nel mondo dell’istruzione e della formazione l’orientamento ha sempre svolto un ruolo importante.
Già negli anni 50 in alcuni consorzi provinciali e istituti Universitari si parlava di orientamento e con la riforma della scuola media unificata, l’orientamento rientrò tra le finalità basilari dell’istruzione secondaria.
Nel 1963 viene assegnata alla scuola media una funzione orientativa “mirata alla maturazione dei singoli allievi chiarendo e sviluppandone le inclinazioni, gli interessi, rilevando le attitudini in vista delle ulteriori scelte scolastiche e professionali”.
Nel 1969 la “pratica” dell’orientamento si estende anche alle scuole superiori e viene introdotto il ruolo del “docente orientatore” con il compito di coordinare i rapporti tra la scuola, altre strutture che si occupano di orientamento e le famiglie.
Con il 24/07/1977 (DPR 616) si dispone esplicitamente la divisione fra orientamento scolastico, affidato ai Distretti, e orientamento professionale attribuito alle Regioni.
Orientamento al lavoro: metodologie e critiche
Quanti di noi si sono accorti di “tutto questo”? E quali sono stati gli effetti di “tutto questo” orientamento?
La dispersione scolastica e la disoccupazione giovanile sono dei temi scottanti della nostra politica. Ciò potrebbe significare che le azioni di orientamento fin qui adottate nelle scuole-università e negli enti di formazione non sono state adeguatamente efficaci o sufficienti per gli studenti facendo emergere una discussione interna al sistema scuola-formazione, ma anche nel mondo professionale dell’orientamento, sull’efficacia di alcune metodologie adottate.
Ancora oggi gli approcci metodologici d’orientamento all’interno delle scuole sono di tipo “psico-attitudinale” (spesso basato sul rendimento scolastico) e di “informazione rispetto al mercato del lavoro della formazione e delle tendenze occupazionali”.
Entrambe le metodologie hanno rilevato dei grossi limiti perché se il primo si esaurisce nel dare indicazioni all’alunno sui percorsi successivi, l’altro si limita a fornire solo informazioni che spesso si sono rilevate forvianti rispetto alle reali “potenzialità” di un giovane.
Ad esempio, una critica che viene spesso fatta alla pratica dell’”orientamento in entrata” alle scuole superiori e alle università, è quella di fare “marketing” dei propri istituti e dei propri percorsi formativi.
L’approccio di un orientamento moderno, invece, avvalendosi delle esperienze passate, si è migliorato passando da un’azione “passiva” del soggetto, ad un’azione rivolta al soggetto come “attore principale” delle sue scelte: un’azione “formativa” mirata a mettere in grado il soggetto ad orientarsi autonomamente.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, vediamo brevemente qual è stata l’evoluzione dell’orientamento.
La pratica dell’orientamento è sempre esistita; basta ripensare a tempi remoti dove i giovani venivano “orientati” al mestiere del padre, oppure, indirizzati ad acquisire “l’arte del mestiere” attraverso l’apprendistato.
Con l’avvento dell’era industriale, con l’aumento e la diversificazione dei ruoli sociali e lavorativi, l’orientamento prende un aspetto diverso passando da un “orientamento del genitore e del maestro” ad un orientamento mirato, inizialmente come servizio rivolto alle aziende, ad oggi, come una azione di “autoconsapevolezza” rivolto alla persona.
Test psicometrici e attitudini personali
Ai primi del 900, Frank Parson introduce un primo concetto dell’orientamento come pratica a “determinare esattamente le caratteristiche di un profilo di lavoro cui indirizzare l’individuo con giusti requisiti per svolgerlo”: si elabora un sistema strutturato su “prove diagnostico-attitudinale” focalizzando l’attenzione sugli elementi “psicosensoriali delle prestazioni individuali”.
Il tutto si traduce che, attraverso “test psicometrici”, si individuano con “esattezza” le “attitudini” dell’individuo per inserire “l’uomo giusto al posto giusto” [Lawe, 1929], permettendo all’azienda di poterne trarre maggior profitto dalla scelta dei propri dipendenti attraverso un sistema con caratteristiche di “stabilità, conoscibilità e prevedibilità”.
In seguito, questo modello viene messo in crisi rilevando che due persone con le stesse attitudini nella stessa attività lavorativa, quella che aveva più interesse nei confronti di quel lavoro, otteneva risultati produttivi migliori: il soggetto con più alto grado di interesse offre maggiore garanzia di riuscita al lavoro [Baumgarten 1949].
Già negli anni 30 si fa strada nell’orientamento il concetto di “interesse professionale” entrando in quella fase che sarà definita “caratteriologica-affettiva” o “affettivo-emotivo”: per svolgere adeguatamente un lavoro, occorrono non solo alcune specifiche attitudini, ma soprattutto l’interesse, la passione e la motivazione, spostando l’attenzione da uno stato psico-fisiologico ad uno prettamente più psicologico.
Il sistema non cambia di molto e sempre attraverso un sistema psicometrico si tenta di indagare anche la sfera della “personalità” (es la teoria di John L. Holland sui “tipi caratterologici”).
Fase clinico-diagnostica dell’orientamento al lavoro
Con lo sviluppo della psicologia dinamica, i test persero parte della loro importanza a favore di un riconoscimento delle inclinazioni più profonde della persona (si esplorano le motivazioni profonde soddisfazioni, necessità di conoscersi, autorealizzazione ecc.) rilevabili soprattutto attraverso il “colloquio clinico” divenendo lo strumento principale nella pratica dell’orientamento.
Questa fase dello sviluppo dell’orientamento sarà definita come “clinico-diagnostica” dove la storia emotiva del soggetto in ambito personale, formativo e professionale, assume un’importanza di primo piano spostando l’attenzione dagli “interessi”, legati a fattori esterni come la famiglia e l’ambiente, alle “inclinazioni” che sono espressione dei bisogni più profondi della personalità umana, spesso inconsci e quindi interni al soggetto: “non vi può essere riuscita professionale o scolastica se non vi è corrispondenza fra lavoro e inclinazioni”.
Fin qui i modelli orientativi adottati hanno riservato al soggetto un ruolo passivo lasciando all’orientatore una funzione dominante, di “diagnosticare, di indirizzare e di suggerire”.
Questo sistema, prettamente psicologico, fu fortemente criticato dalla sociologia, perché ignorava altri fattori utili al soggetto per fare una scelta consapevole (condizioni economiche-culturali e del MdL, tradizioni, pregiudizi, idee, valori e modelli socialmente acquisiti) e poi dalla pedagogia che indentifica nell’orientamento e nell’orientatore, una funzione di tipo educativo-formativo per aiutare il soggetto a relazionarsi con la realtà sociale, economica e produttiva che lo circonda: nasce la fase dello “sviluppo vocazionale” (anni 70).
Questo approccio riprende gli aspetti che abbiamo appena visto e li inserisce in un processo d’orientamento che si focalizza non solo nelle singole fasi di passaggio tra scuola-scuola, scuola – lavoro, lavoro-lavoro ma anche nell’arco di tutta la vita: una maturazione, tramite un “auto-orientamento”, che lo porterà ad inserirsi in un contesto sociale e professionale.
Centri per L’Impiego di Roma